Stefanaconi,
20 marzo, 2007
Sono trascorsi 40 anni
da quel terribile lunedì 20 marzo del 1967,
un giorno molto doloroso per la storia di
Stefanaconi; infatti in quella data ben 7
lavoratori persero la vita a causa del
crollo di una galleria lungo la linea
ferroviaria che attraversa il nostro
territorio. Era ormai da circa due anni che
la ditta Sogeni Italia di Roma lavorava per
traforare la collina e costruire la galleria
della linea ferroviaria Battipaglia – Reggio
Calabria, una seconda linea, più veloce e
più corta della prima situata lungo la
costa, e ancora oggi funzionante. Era il
lunedì della settimana santa, circa le due
del pomeriggio quando i nove minatori dentro
il traforo dovevano smontare dal turno di
lavoro trascorso, non prima però di avere
accelerato il lavoro del turno successivo
facendo brillare la mina, causa della
catastrofe, mentre fuori stavano ad
aspettare gli altri che dovevano dar loro il
cambio. Questi, alcuni dei quali ancora in
vita, raccontano che, dopo i primi momenti
di confusione e incertezza, dovuti a quello
scoppio dentro la galleria più violento del
solito, e riusciti a penetrare in qualche
modo nella galleria stessa, capirono
l’entità della tragedia che si era compiuta.
In effetti, secondo le ricerche eseguite
successivamente e che si trovano tutt’ora
nel Sistema Informatico sulle catastrofi
geologiche, in quell’esplosione vennero giù
1000 metri cubi di terra e pietre. A questa
tragedia sopravvissero solo due dei nove
minatori di quel maledetto turno. Solo dopo
due giorni fu ritrovato il corpo del primo
minatore, e per il recupero delle rimanenti
salme, furono precettati tutti gli operai e
si lavorò ininterrottamente per altri 17
giorni. Gli operai sotto shock, un intero
paese sotto shock, che deve pagare un
tributo altissimo di sangue affinché anche
questa piccola comunità possa in qualche
modo beneficiare dei forti mutamenti
economici e sociali che stavano avvenendo
all’epoca. Ma ci si è chiesto subito se
questa tragedia poteva o meno essere
evitata, e allora ecco che entrano
nuovamente in gioco le testimonianze di chi
era presente che ci raccontano come il
lavoro doveva essere veloce e poco curato
dal punto di vista della sicurezza la quale
prevedeva, circa ogni metro, l’inserimento
di una “centina” in cemento armato per
sostenere la volta e che invece erano
assenti per le ultime decine di metri della
galleria o come i turni di lavoro dovevano
essere continui e duri in modo che l’opera
fosse portata a termine nel più breve tempo
possibile e ancora i sospetti di qualche
operaio che già nei giorni precedenti
tornava a casa con la paura tangibile che
potesse succedere qualcosa entro breve
tempo… Questa tragedia provocò il cordoglio
di un’intera nazione che si manifestò con le
condoglianze alla prefettura di Catanzaro da
parte dell’allora presidente della
Repubblica Saragat, mentre oggi per tenere
vivo il ricordo anche nelle menti delle
nuove generazioni, sia la Pro Loco che
l’Amministrazione comunale, si stanno
impegnando in iniziative atte a questo
intento: già nel 1998 era stata deposta una
stele in Piazza della Repubblica: “Alla
memoria di chi compiendo il suo dovere è
morto sul luogo del lavoro…” recita
l’epigrafe; mentre oggi per ricordare i 40
anni, è stata celebrata una messa a
suffragio di quei caduti sul lavoro. Il
monito, allora come oggi, dove ancora in
alcune parti del mondo si ripetono tragedie
identiche, come è successo proprio ieri in
una miniera della Russia, deve essere quello
che al centro di ogni progetto ci deve
essere non il raggiungimento di un qualsiasi
profitto, sia esso economico o di prestigio,
ma la salvaguardia del lavoratore, dell’uomo
inteso come opera di Dio. Per concludere
voglio riportare la poesia di un poeta
stefanaconese del tempo, Paolo Procopio, che
ricorda in modo doloroso e veritiero quello
che accadde: “Malapasca a Stefanacuni”
Povaru pajseju sbenturatu, chi malapasca chi
ti vinni a ttia… Tutti vannu currendu a
perdihjatu, pe la disgrazzija di la gallaria!
E patri di famigghja si ‘mpittaru, ‘nta li
visciari nigri di la terra. Oh, quantu è
tristi ‘stu carvariju amaru, lu progressu
portau ‘na ‘terna guerra! E jé guerra di
lagrimi e suspiri, lu pani amaru chi ndi
fatigamu, ‘nta ‘sta Calabrija mia, china d’amuri,
cchiù fatigamu e cchiù nd’arredi jamu! |